Ho letto su Diogene una serie di articoli sui genitori, sulle loro tante mancanze, incapacità, “stupidaggini”. E potrei raccontarne di aneddoti, perché di genitori ne ho visti tanti in venticinque anni di lavoro, tra tossicodipendenti, adolescenti, bambini, e molti ne vedo ancora. La lista degli errori, delle mancanze, delle sciocchezze fatte in nome dell’”amore per i figli” sono molteplici: ragazzi che a 16 anni dormono ancora con la mamma, con il padre, costretto, suo malgrado o forse “grazie a Dio”, a dormire nel lettino del figlio; mamme che accudiscono trentenni come fossero ancora bambini, curandoli e vezzeggiandoli in una sorta di eterna bambagia che non permette loro di crescere, separarsi e diventare adulti. Genitori che si scagliano inferociti contro insegnanti provati e frustrati da una massa di “bamboccioni” che tutto hanno voglia fuorché di studiare, perché il loro “bambino” ha preso una nota, o un brutto voto, o, addirittura, gli è stato tolto il cellulare! Il cellulare, questa sorta di cordone ombelicale tecnologico che non permette più una sana separazione, condita di un po’ di ansia, accompagnata dalla speranza che vada bene e da un affidarsi al destino. No, adesso con il cellulare siamo sempre rintracciabili, non ci lasciamo mai, rimaniamo sempre in contatto, mai più soli, mai più in connessione unicamente con noi stessi. E nemmeno loro, i ragazzi, gli adolescenti, i bambini. Chissà che fine ha fatto Winnicott, con il suggerimento di essere madri “sufficientemente buone”! Madri, cioè, che non pretendono di essere perfette e che aiutano il figlio a trovare la propria autonomia. Sono quelle che dotano il bambino di una copertina, di un peluche, di quello che si chiama “oggetto transizionale”, che crei, appunto, quello “spazio transizionale” all’interno del quale il bambino possa lenire l’angoscia della separazione dalla madre e impari a stare con sé, costruendo una relazione affettuosa con un altro diverso da sé. Il peluche, l’oggetto transizionale, appunto, generalmente sporco, senza un orecchio e mezzo rovinato, diventa quel qualcosa che serve fino ad una certa età e poi è messo da una parte per poter essere recuperato al momento del bisogno.
E come le madri “sufficientemente buone”, anche i padri dovrebbero recuperare quella loro funzione di guide verso l’ignoto, il fuori, là, aldilà del protettivo grembo materno e desco familiare! Il padre, che secondo Freud andrebbe “ucciso” perché il figlio possa diventare adulto, ben si guarda, oggi, di mettersi in contrasto con i figli. Passati i tempi della lotta al potere costituito, i figli e le figlie stanno ancora in collo al babbo o alla mamma, sono gelosi dei nuovi partners, impauriti da qualcuno che possa rubare loro l’affetto degli amati genitori. E questi ultimi, ben si guardano da creare conflitti, presi dalla paura di perdere il contatto con il figlio che magari vedono raramente e per poco tempo.
Forse non sanno che l’amore è qualcosa che si crea, si cura, si cresce, si alimenta in tanti modi; l’amore ha mille sfaccettature, modi di essere visto ed osservato, di essere espresso e donato. La relazione genitori/figli è qualcosa che va costruita nel tempo, sbagliando, superando il senso di frustrazione e fallimento, la paura di non essere in grado, di poter perdere qualcosa. E ci vuole tanta messa in discussione, voglia di ricominciare, magari da un altro spazio, tempo e modo di comportarsi; ci vuole pazienza, saper aspettare, reggere il dolore, proprio e dei figli, la frustrazione, la rabbia, la paura.
Per non rischiare di essere distruttiva e fare di “tutt’un’erba un fascio”, e trasmettere anche qualcosa che faccia sperare che si possa cambiare, vorrei portare tre esempi di genitori che hanno scelto una linea diversa, una madre e un padre separati ed una moglie professionista. I primi due, entrambi separati dai rispettivi coniugi, hanno scelto di educare i figli alla responsabilità ed all’autonomia, anche se con inesperienza, paura e difficoltà. La prima, madre separata, ha educato le sue figlie, aiutata da ragazze alla pari, mettendo regole chiare e precise, concordate e condivise con le figlie, responsabilizzate rispetto alla loro nuova situazione. Il suo affetto e la sua fermezza hanno permesso alle figlie di seguire una strada verso l’autonomia, dove gli ostacoli non sono eliminati ma superati con l’aiuto della madre.
Il padre, separato, si è ritrovato ad avere il figlio solo ogni quindici giorni per un fine settimana, all’interno del quale ha dovuto far rientrare ogni cosa, piacevole e spiacevole, educativa e ludica, di responsabilità e di aiuto. Consapevole di non avere termini di paragone, ha cercato di fare del suo meglio, muovendosi un po’ per “prove ed errori”, aggiustando il tiro ogni volta, con la determinazione di colui che vede come obiettivo primario il bene del figlio, anche se questo significa mettersi in contrasto e vivere frustrazione.
L’ultima, la madre professionista, ha fatto una scelta coraggiosa, cioè quella di lavorare all’estero, unico modo per poter guadagnare; d’accordo con il marito, ha fatto sì che la figlia vivesse la sua vita vedendola tra un viaggio e l’altro in una maniera “qualitativamente eccellente”, organizzando la sua vita anche a distanza, con zie, amiche e, naturalmente, il padre.
Tre esempi, pochi sicuramente per una statistica, ma piacevoli nel pensiero; non solo genitori ostaggi dei figli, non solo mamme al servizio, non solo “mammi” che non sanno più cosa significhi essere padri. Esistono anche persone che decidono di fare i genitori, non gli amici, non i compagni, i genitori, tanto amati, tanto odiati, e per sempre nei nostri cuori.
Giulia Checcucci