SONO OVUNQUE (scritto qualche anno fa e ritrovato….)
“…e guai a chi un bel giorno si trovi bollato da una di queste parole che tutti ripetono!
Per esempio: “pazzo” – Per esempio, che so? -“Imbecille”.
Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa?
Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto
quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica,
la logica di tutte le vostre costruzioni” (Luigi Pirandello, Enrico IV).
Non c’è niente da fare, sono onnipresenti, spuntano nei parcheggi quando meno te l’aspetti, chiedono soldi, lavano vetri, vendono calzini, accendini, collanine, insistenti “bella, un caffè, per favore, compra qualcosa”.
Oppure li vedi che camminano per strada, sempre tra di loro, mai mescolati agli occidentali, rari momenti di pausa fuori dalla postazione di lavoro dove macinano borse, oggetti, vestiti, che rivendono, non si sa come facciano, per “due lire”.
E ancora, li vedi accanto a persone anziane, l’aria assorta, di chi sogna forse di tornare al proprio paese, marito, figli, lasciati là, per il miraggio di una vita migliore.
Sono tanti, diversi, di tanti colori, fattezze, differenti modi di vestire, agghindarsi, pettinarsi, chador, cafetani, sahari, turbanti, treccine, più o meno appariscenti. Tutti, però, con un unico scopo: trovare un modo migliore di vivere, migliorare la propria qualità di vita.
Attratti da un paese che sembra quello del Bengodi, lavoro, casa, tv, arrivano in Italia dove fanno i lavoro più umili che gli italiani non vogliono fare, e portano la loro cultura, il loro modo di vivere, le loro usanze. Insomma, portano la loro differenza. E la differenza, la diversità, fanno paura. Il rapporto con chi è portatore di differenza, infatti, è sempre stato foriero di angoscia per il mondo occidentale, rappresentando una minaccia alla sicurezza del benessere acquisito, e dunque un potenziale nemico da combattere o esorcizzare.
Un popolo diventa, quindi, un “nemico comune”, il capro espiatorio che assolve alla funzione sociale di coalizzare tutti gli uomini contro una predestinata “vittima comune”, poco importa se essa sia innocente. È chiaro la sensazione provata verso le altre culture non può essere la stessa che si ha con la cultura di appartenenza, verso “la gente della propria specie”, ma è anche vero che la nostra cultura può alimentarsi della cultura dell’Altro, della sua originalità: si tratta insomma di valorizzare l’Altro e di mettere in evidenza la positività che è in grado di esprimere.
Si tratta, quindi, di sforzarsi di capire, di combattere l’intolleranza, di fare della diversità una ricchezza e non un limite. Si tratta, in definitiva, di non rifiutare.
Per capire, due parole che non vogliono essere esaustive di una materia così ampia come il pensiero prevenuto ed il pregiudizio, entrambi alla base del razzismo. Alla base del rifiuto o, addirittura, dell’aggressività verso l’Altro, c’è, appunto, il pensiero prevenuto che rifiuta tutto ciò che è nella logica, non verifica ciò che afferma ed è alla base del pregiudizio. Il suo elemento costitutivo è una credenza e un oggetto il cui carattere formale è espresso dallo stereotipo. Lo stereotipo è una credenza astratta, largamente diffusa tra i membri di un gruppo sociale o etnico, applicata nei riguardi di un altro gruppo sociale o etnico che è l’oggetto della credenza (es.: neri, tedeschi, meridionali, italiani, ecc.). Il carattere di un membro di un gruppo viene applicato indistintamente a tutti i membri appartenenti al gruppo. Questo tipo di pensiero è molto rigido, infatti esiste una notevole resistenza della credenza prevenuta a modificarsi di fronte a esperienze contrarie e ad una conoscenza completa e definitiva. I motivi di tale resistenza sono vari: vi è, sia la tendenza a non modificare le proprie opinioni, sia il fatto che spesso la credenza ha un legame con cariche affettive profonde di fronte alle quali una smentita costituisce una frustrazione, alla quale spesso si reagisce con reazioni inadeguate. Da questo punto di vista il pregiudizio è una difesa messa in atto nei confronti di qualcosa di istintivo al quale esso offre una via di scarico. In questo senso si trova unito ad altri meccanismi di difesa attraverso i quali si opera una sorta di distinzione tra ciò che è buono (essere italiani) e ciò che è cattivo (essere extracomunitari). Questa modalità implica che l’atteggiamento di prendere posizione nei confronti di una collettività necessiti sempre di un termine di riferimento che generalmente risulta essere la propria collettività. Dal punto di vista affettivo, si configura, così, una bipolarità tipica: antipatia verso il gruppo estraneo e simpatia verso il proprio. Nel pregiudizio esistono due componenti, l’affettività e l’attività cognitiva, dalla prima fortemente influenzata; di pari passi, dal punto di vista cognitivo, alla simpatia per la propria comunità si associa un’autoesaltazione ed all’antipatia per il gruppo estraneo, un’eterodenigrazione.
Occorre aggiungere, poi, dato tutto questo, che nella nostra società c’è sempre stata l’esigenza di trovare un capro espiatorio, qualcuno sul quale proiettare tutto ciò che di peggiore esiste rispetto a comportamenti, pensieri, sentimenti. Un tempo erano gli ebrei, poi, al Nord, ci sono stati gli immigrati del Sud, negli anni ’80 come non ricordare i tossicodipendenti, “brutti, sporchi e cattivi”. Poi sono arrivati i marocchini, i “vucumprà”. Adesso ci sono gli albanesi, i rumeni, i tunisini. “Gentaccia, ci porta via il lavoro e le case!!”.
Ora, a fronte di tutto ciò, occorre, invece, allenarsi al confronto, traducendo l’esperienza dell’approccio al diverso in un incessante ed emozionante viaggio esplorativo della propria mente e delle trasformazioni che essa subisce nel percorrere itinerari sconosciuti. Si tratta di un viaggio difficile, ma che sicuramente può portare arricchimento e nutrimento, senza che ci siano etichettature, sia in negativo che in positivo. Occorre, come diceva qualcuno in un vecchio film, considerare ogni uomo come “unico e insostituibile”, con un occhio alle proprie miserie umane ed un altro alla possibilità di un mondo nuovo, diverso, colorato, dai sapori diversi e dalle sfumature dell’arcobaleno.
Solo una piccola immagine che mi è cara ricordare a proposito della multiculturalità. A Parigi, città dove, come nel resto della Francia, da tantissimo tempo ci sono extracomunitari, nei vagoni della metropolitana basta guardarsi intorno e si respira multiculturalità: un caleidoscopio di colori, odori, profumi, lingue, dialetti. A me viene in mente ricchezza, apertura, respiro, libertà. E a voi?
Giulia Checcucci